Il blog di Chiara Cecutti

Work-Life Balance? Fa bene a Uomini e Donne

È ufficiale! Il desiderio di un sano equilibrio tra vita personale e vita professionale non riguarda più solo le donne. Infatti, oltre a non essere un tema di appannaggio esclusivo delle mamme lavoratrici (sfatiamo l’idea che le donne sprovviste di legami familiari non abbiano diritto a tempo di qualità per sé e che perciò si possa pretendere che si sobbarcarchino orari di lavoro illimitati), oggi la ricerca di questo equilibrio “tocca” anche gli uomini. Proprio così: anche gli uomini ci tengono ad avere spazio per coltivare la propria vita personale, tanto da considerare più attraenti le aziende attente all’equilibrio vita-lavoro dei propri collaboratori.

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Contrariamente a quanto si possa pensare, diversi studi mostrano infatti che i Millennials (la generazione che oggi ha un’età compresa più o meno tra i 30 e i 40 anni) considerano, senza particolari scostamenti tra uomini e donne, il bilanciamento del tempo da dedicare al lavoro e a se stessi come un fattore essenziale. Forse non sempre per gli stessi motivi, tuttavia questo nuovo trend è comunque interessante perché è proprio incentivando la medesima flessibilità per uomini e donne che agevoleremo la riduzione delle discriminazioni di genere sul lavoro.

| TRA SENSI DI COLPA E TIMORI DI RIPERCUSSIONI
Certo la maggior parte degli uomini sembra essere più concentrata sul lavoro che sulla famiglia, se non altro in termini di tempo dedicato e di gestione dei carichi quotidiani delle incombenze collegate a casa, figli e genitori anziani. Ma è anche vero che gli uomini sono meno inclini ai sensi di colpa, sentimento in cui la donna detiene invece ancora il primato assoluto, grazie ai tanti stereotipi tuttora ben radicati nella cultura di genere. E che i medesimi stereotipi impattano, all’incontrario, anche sugli uomini portandoli a temere danni d’immagine e di ripercussioni sulla carriera nel parlare apertamente di work-life balance (argomento automaticamente associato al modo femminile) e nel fruire, per esempio, dei permessi di paternità.

D’altra parte è sempre più evidente che le discriminazioni di genere sul lavoro rappresentano un tema ancora dolorosamente attuale, a maggior ragione quando si parla di maternità. E finché non cambierà ciò che pensiamo veramente, non cambieranno certamente le cose. Un esempio su tutti? Le recenti dichiarazioni di una nota imprenditrice, la stilista Elisabetta Franchi, che ha tanto indignato noi tutte sostenendo che le persone più adatte a ricoprire posizioni di responsabilità nella sua azienda sono donne sì, ma quelle donne che non hanno più impegni familiari (leggi: figli ormai grandi e non solo), perché disponibili a lavorare al suo fianco h24. Ma non è che abbia semplicemente dato voce a ciò che tanti imprenditori e tante imprenditrici pensano anche se si guardano bene dall’ammetterlo? In ogni caso la cosa che più mi colpisce è la volontà di circondarsi di persone disposte a lavorare h24 (a proposito di work-life balance) che a suo avviso è maggiore da parte delle donne rispetto agli uomini. Meditiamo, donne, meditiamo…

| E PARLIAMO DI GENITORIALITÀ: EVVIVA I CONGEDI DEI PADRI
Se vogliamo davvero ridurre le discriminazioni di genere sul lavoro, penso sia arrivato il momento in cui allenarci a parlare di genitorialità anziché solo di maternità. Perché finché non ci focalizzeremo seriamente sull’incentivare una paritetica flessibilità per tutti, a prescindere dal genere, e finché non ci abitueremo a pensare, a parlare e a favorire la genitorialità per sostenere la maternità, temo faremo ben pochi passi avanti.

E proprio in questa direzione un passetto avanti, per quanto piccolo sia rispetto ad altri paesi europei, è marcato dal Family Act, che ha sancito un aumento della durata e del numero dei congedi genitoriali per i padri. Diventato legge il 27 aprile scorso, il pacchetto (finalmente) varato dal governo italiano punta all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per entrambi i genitori, aumentando tra l’altro la durata del congedo dal lavoro per i neopapà a 10 giorni, e anche il giorno facoltativo di congedo di cui il papà può usufruire in alternativa alla mamma. Ma come aiutare i papà a superare l’idea di subire danni di immagine e ripercussioni sulla carriera usufruendo di ciò che è facoltativo?

Una nota azienda alimentare (Nestlé) ha già istituito un periodo retribuito di ben 12 settimane per il papà lavoratore o il caregiver secondario, in occasione della nascita o dell’adozione di un bambino. Sì, 3 mesi – che certamente non tutte le aziende potrebbero permettersi di sostenere – contro i 10 giorni previsti dal Family Act. E, per quanto il benessere dei lavoratori abbia ricadute positive sulla produttività, e non sia perciò scevro da logiche di profitto, questa politica di sostegno alla genitorialità inclusiva rappresenta un ottimo esempio e una via decisamente concreta per rendere la flessibilità di cui parlavo il vero driver delle pari opportunità.

In  sintesi: uomini sempre più al fianco delle donne che lavorano quindi, ma quanta fatica per avanzare… Un po’ meno grazie a Nestlé!

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